Se il lunedì dell’evento è il giorno più ricco di novità, presenze e anticipazioni, chissà cosa sarà accaduto nei giorni precedenti.
Di cuochi (chef è una parola che non amo, ma che al massimo si poteva “appiccicare” ad uno sparuto numero dei presenti, spesso senza giacca della divisa) in giro per il grande salone e nelle sale conferenze, ne ho visti parecchi, così come non mancavano i nuovi e vecchi profeti della comunicazione enogastronomica, comunicatori di sogni e predicatori di verità assolute.
Oramai il mondo della cucina vive di dogmi: se quel tale dice che un cuoco è bravo, tutti gli altri a ribadire il concetto, spesso senza neppure aver avuto la possibilità e/o la capacità di aver assaggiato quanto propone. Basti vedere le miriade di premi che vengono distribuiti sempre e solo agli stessi, rafforzando erroneamente giudizi e convinzioni.
Detto questo, che probabilmente avrà già scaturito l’ira di alcuni tra i più fervidi “abbuffini” e “lecchini”, devo da un lato complimentarmi con la puntuale organizzazione dello staff guidato da Paolo Marchi che però devo bacchettare per quanto riguarda l’accesso alle conferenze dei vari giornalisti (veri) presenti. Non è possibile infatti che anche quest’anno (nonostante il corridoio preferenziale aperto di fianco all’auditorium centrale) molti giornalisti non abbiano potuto assistere direttamente alle conferenze di cuochi famosi, poiché tanti (e forse senza titoli) fin dalla prima mattina si erano accaparrati i posti iniziando a presidiare la sala senza possibilità quindi di alternare le presenze tra una lezione e l’altra.
Ma superato anche questo “scoglio” degli attori, passiamo al vero essere di questo “viaggio” nel gusto che, almeno per alcune delle proposte seguite e di quanto ho potuto verificare in giro, si basa più sull’effetto visivo che non su quello gustativo. Quando parlavamo di multi-sensorialità intendevamo l’uso di tutti i sensi senza abusarne di qualcuno in particolare. Adesso mi sembra invece che la sola cosa che serva sia quella dell’apparenza e non dell’essenza. La cucina si evolve nel tempo, ma deve restare fedele ad alcune regole. Sarebbe come se la matematica non si basasse più sui teoremi e sulle tabelline di Pitagora, visto che adesso ci sono le calcolatrici elettroniche.
La cucina proposta riprende molto il concetto matematico espresso, poiché adesso ci sono una quantità incredibile di attrezzature robotizzate, in cucina il cuoco più che spadellare si diletta a lavorare tanto (troppo) crudo, a pre-cucinare, a scaldare ma soprattutto, ha praticamente eliminato dagli strumenti di lavoro cucchiai, mestoli e tegami, sostituendoli con pinzette chirurgiche e piccoli padellini, simili a quelli con cui le mie sorelle giocavano con le bambole, solo per appagare palati anestetizzati dai mille masterchef che la TV ci propina. Per carità ci sono creazioni che alla vista e all’occhio fotografico possono anche sembrare capolavori, ma tra vedere un bel piatto e goderne dei sapori, ci corre come tra visitare le sale di un museo e pensare di vederne il contenuto su un catalogo.
Mi piacerebbe, artisticamente parlando, che esistesse un sorta di sindrome di Stendhal gastronomica, dove un palato goloso si inebriasse dei profumi di un soffritto di cipolla, della vista di uno spaghetto al pomodoro ben fatto (su questo ho molti dubbi che tanti grandi cuochi presenti potessero, a richiesta, prepararlo) dell’arrosto della domenica o di un fumante carrello di bolliti, insomma di piatti più “umani” che, così come dovrebbe essere abitualmente, rievochino ricordi, immagini, sensazioni ed inducano la mente a viaggiare nel passato, nel nostro animo, amplificando così il miglior ingrediente che ogni piatto racchiude, la memoria.